L'Isola di Pantelleria

L’isola di Pantelleria è una rilucente scoria vulcanica, adagiata al centro del Mediterraneo (gradi 36,48 latitudine Nord; gradi 12 longitudine Est), alla confluenza dei due bacini Ovest ed Est di questo mare, tra due continenti, l’Africa e l’Europa, esattamente tra la Tunisia e la Sicilia, più prossima a quella che a questa. 
Dalla Tunisia dista infatti (Capo Mustafà) appena 70 Km, mentre dista dalla Sicilia (Capo Granitola) 110 km. 
Nelle giornate chiare la costa tunisina si staglia così vicina che sembra di poterla toccare con poche bracciate di nuoto, mentre, di notte, è visibile il lampeggiare dei suoi fari; assai di rado invece si riesce a scorgere la Sicilia; soltanto in condizioni di eccezionale visibilità si avvista il Monte Erice. 
Con accento drammatico Enrico S. Washington, venuto nell’isola nel settembre del 1905 per studi geologici, così descrive l’incontro: “Pantelleria si erge repentinamente dall’ampio, profondo canale che separa la Sicilia da Tunisi, in prossimità dei bordi del Banco dell’Avventura...”. L’eterna malattia del nazionalismo, che fa chiamare agli inglesi lo stretto della Manica “Stretto di Dover” e ai Francesi “Passo di Calais”, fa chiamare a noi questo canale “il Canale di Sicilia” e ai tunisini “il Canale di Tunisi”. 
Una suggestiva immagine suscita in Robert Mowat l’allineamento Sud Est-Nord Ovest delle isole di Malta-Gozo-Pantelleria “gigantesche boe, che segnano, in mezzo al mare, la frontiera ideale tra il continente d’Europa e quello d’Africa”.

Il Paesaggio

In realtà, l’isola si compone di tanti paesaggi, insula una, facies mille. Al visitatore che giunge dal mare, puntando sul porto, l’isola appare da lontano un largo arco di montagna; in realtà essa è una costellazione di alture, avanzi di focolai vulcanici spenti, denominate nella quasi totalità Cúddie (dall’arabo Kudya, collina). La cima più alta, la Montagna Grande (m. 836), quasi al centro dell’isola, conglomerandosi con altre minori alture in un cospicuo massiccio montuoso, verdeggiante di pini, si dilunga in un’ampia catena, con giacitura Nord-Sud. Attorno e oltre questo maestoso mammut del complesso montuoso di Pantelleria, sono disseminati i monti minori, taluni isolati, taluni concatenati, talora disposti in circolo, in pittoreschi anfiteatri, che racchiudono fertili pianure, quali il Piano di Ghirlánda, il Piano di Monastéro, il Piano di Sibá. Le cúddie non hanno tutte lo stesso aspetto né la stessa struttura; talune sono ammantate di verde, altre sono brulle e nere, così come l’attività vulcanica le ha create … Pittoreschi quanto le loro figure sono i loro nomi: Cúddia Attalóra, Cúddie Patíte, Cúddia Sciuvéki. Altra singolarità del terreno le colate di lava, che si distendono in tavolieri, nei quali la pasta vulcanica, sconvolta così come fu eruttata, si accavalla e si plasma in figure mostruose e apocalittiche, che sbalordiscono ogni fantasia e immaginazione. Tra tali quadri di orrido, che paiono opere di streghe e di demoni, vanno annoverate le plaghe di Cimillía, Gelfisér, Sciuvéki, Khagiár … è chiaro come il paesaggio sia tutt’altro che monotono … là … appare quasi lunare, aspro e nero, orrido e infernale; qua si ammanta di verde, s’intenerisce in paesaggio pastorale e idilliaco. Un po’ dappertutto le ossidiane, lucide e nere, sfavillano al sole, perennemente in scena, creando, insieme al mare, mille iridescenze… . 
Di tanti gioielli che abbelliscono l’isola, due preziosi spiccano su tutti, due doni di Dio: il Lago di Bugéber o Specchio di Venere o, com’è notato nelle carte, Bagno dell’Acqua, fulgida gemma turchina, incastonata nella pittoresca conca di Bugéber; e la Cala di Levante un’alta insenatura, che racchiude una delle scene più sontuose. Ad un estremo della Cala, l’estremo est, è una roccia, modellata con arte michelangiolesca in figura di testa di elefante, la cui proboscide s’immerge nel mare, creando un arco di suggestiva bellezza … All’altro estremo della Cala, al corno ovest, il faraglione di Tráçino … si foggia prodigiosamente in una testa di fiera, che emerge dall’acqua, protesa in su, in posa di allerta, verso un’invisibile preda o contro un invisibile nemico 
Aggraziano infine il paesaggio … quelle caratteristiche costruzioni terrane cubiche, col tetto a cupola, d’intonazione moresca, denominate “ddammúsi”. I dammúsi e qualche palma, disseminata qua e là, avvertono che l’Africa è vicina … Anche il caldo estivo, temperato dai venti e dal mare, fa sentire e presentire l’Africa … è un clima sostanzialmente caldo, ma che non è africano; lo si può definire parafricano; parafricana infine la bruna, conturbante bellezza delle donne.

 

Il Dammúso

Il dammúso è l’ingrediente principe della pietanza paesaggistica pantesca. Il dammúso modello, il dammúso nell’edizione perfetta, impeccabile, è un fabbricato rurale terrano, cubico, le cui caratteristiche architettoniche salienti, che saltano subito all’occhio, sono le seguenti: a) muri esterni, del minimo spessore di centimetri ottanta, confezionati con pietre grezze e architettati con la struttura detta in dialetto pantesco “a ccasciáta”, che spiegheremo; b) aperture che si concludono ad arco, di norma a tutto sesto, nelle quali è inserito, pressoché al centro della loro profondità, un riquadro in muratura ove sono alloggiate le porte d’ingresso e le imposte delle finestre; tale riquadro è costituito da due pilastri in pietra che sorreggono un’architrave, sulla quale è murata una mezzaluna, che riempie l’arco dell’architrave al vertice; la mezzaluna è talora costituita da un’unica pietra, e in tal caso la base della mezzaluna viene a costituire l’architrave (foto nn. 37-38); c) tetto a cupola. 
Superfluo puntualizzare che, quando diciamo “tetto a cupola”, non intendiamo affatto dire che il dammúso abbia un’unica cupola. Esistono piccoli dammúsi con una sola cupola, ma, fuori del caso del minidammúso, il dammúso ha di norma una copertura complessa, composta di più cupole, tante quanti sono i vani di cui si compone l’ambiente (foto n. 31-35). Col dilagare della calce, tutti questi elementi architettonici, pilastri, mezzelune, architravi, vengono intonacati (foto n. 36). 
Ci preme puntualizzare che, quando abbiamo definito il dammúso una costruzione rurale, non abbiamo inteso affermare che il dammúso esiste unicamente nelle campagne. Un tempo il dammúso era nelle campagne ed era anche nel centro urbano, dove tutt’ora sopravvive, sia pure in via d’estinzione. 
Prima di inoltrarci ancora nell’esame del dammúso già costruito, pensiamo sia utile un preliminare sul materiale e sulla tecnica della sua costruzione. A lume di tante ispezioni ed osservazioni da noi eseguite, confortate da informazioni e spiegazioni forniteci da gente qualificata, emergono chiaramente due epoche nella tecnica costruttiva del dammúso: l’epoca del táiu e l’epoca della calce… 
Spieghiamo anzitutto che la parola “táiu”, del dialetto pantesco, sta a indicare una malta fatta di terra impastata con acqua. 
Quest’epoca va dalla rovina di Cossíra fino alla ripresa dei traffici con la terraferma che, secondo noi, dovette coincidere con l’occupazione bizantina (anno 533). In tutto questo arco di tempo Pantelleria fu un paese totalmente e totalitariamente autarchico, che dovette arrangiarsi da sé in ogni campo della sua attività. Nelle costruzioni, non disponendo di calce, ci si arrangiò col táiu (la malta che abbiamo avanti spiegata), che fu impiegato, in prevalenza, nella copertura del tetto, la cui volta veniva composta con pietre squadrate, longilinee, messe in opera di taglio (in dialetto: “di cózzu”); una tecnica, questa della volta composta con pietre messe in opera di taglio, che nelle costruzioni rustiche, come ad esempio le stalle, è stata praticata fino al secolo scorso. Queste pietre, per quanto accuratamente murate, non potevano esattamente combaciare; presentavano forzatamente dei vuoti, che, nella superficie esterna, cioè nel tetto, venivano colmati con spalmate di táiu, in cui veniva incastrato del pietrisco. 
Operata questa colmatura, si procedeva a stendere un manto di táiu, che veniva coscienziosamente battuto con mazzuole di legno impugnate direttamente con la mano. Su tale manto sopravveniva poi a germinare l’erba, che lo consolidava con l’intreccio delle sue radici… I muri esterni venivano costruiti con lo stesso materiale e con la stessa tecnica dei muri di contenimento dei terreni coltivati, ma erano ben più imponenti ed erano immancabilmente a “ccasciáta”. 
Operata questa colmatura, si procedeva a stendere un manto di táiu, che veniva coscienziosamente battuto con mazzuole di legno impugnate direttamente con la mano. Su tale manto sopravveniva poi a germinare l’erba, che lo consolidava con l’intreccio delle sue radici… I muri esterni venivano costruiti con lo stesso materiale e con la stessa tecnica dei muri di contenimento dei terreni coltivati, ma erano ben più imponenti ed erano immancabilmente a “ccasciáta”. 
Il muro a casciáta è composto di due file di pietre, parallele e distanziate. Il vuoto fra le due file viene colmato con pietrame minuto, assestato e costipato. Al pietrame vengono aggiunte generose innaffiate di terra, che riempiono ogni interstizio. Insomma, il muro a ccasciáta è un muro rimpolpato con un terrapieno di pietrame e terra.
Lo scopo principale dell’innaffiata di terra è quello di consolidare il muro, di farlo massiccio, compatto. Altro effetto, non previsto dai primi architetti, dagli inventori di questa muratura, è quello di rendere il muro a casciáta un muro sordo, cioè refrattario al calore, al freddo e ai rumori. .. Con questa muratura, i panteschi possono vantarsi di essere stati dei precursori in edilizia; la casciáta, infatti, è oggi riprodotta nella cassaforma di cemento armato.

Il ritorno della calce nell’isola apporta fatalmente innovazioni nella tecnica di costruzione. La muratura a pietra rotta non viene abbandonata, tant’è vero che si pratica ancora oggi; ma cambiano tante cose e se ne introducono di nuove. È bene avvertire, però, che la calce, nel primo momento, venne usata con estrema parsimonia.
Grazie alla calce, il pantesco provvide anzitutto a ripararsi la testa, il tetto, l’ombrello della casa. Il tetto col manto di táiu era una copertura troppo inconsistente; anche quando non filtrasse l’acqua, l’umidità dovette essere permanente in casa, e chissà quanti panteschi di quel tempo resero anzitempo l’anima a Dio, in conseguenza di polmoniti, pleuriti e simili; non bisogna dimenticare che, in quel tempo, la penicillina era ancora da venì!
Poi dovette provvedere a cautelarsi i piedi, cioè a confezionare il pavimento, che era o in terra battuta o lastricato in pietra; poi dovette provvedere e provvide a tante altre cose utili al suo benestare. 
La copertura del tetto venne effettuata con minuzzame di scorie vulcaniche, chiamato tufo dai paesani, impastate con calce e terra. A meglio cementare il muro a ccasciáta, si introduce negli interstizi calce impastata con abbondante terra.
Per comporre la volta non occorre più incastrare con pazienza certosina pietre disposte in taglio; qualunque pietra, escluso sempre lo strúmmulu, comunque conformata e comunque disposta, serve egregiamente alla bisogna; c’è la calce che amalgama, lega e collega.
Grazie alla calce, è possibile un nuovo tipo di costruzione del ddammúsu, una nuova tecnica costruttiva, la costruzione dei muri a pietra tagliata, alias con pietre squadrate, rifinite in geometrici rettangoli della lunghezza, per i muri esterni, intorno a cm. 80, della larghezza intorno a cm. 38, e dello spessore intorno a cm. 25: una bella riduzione di spessore e di manodopera rispetto al muro a ccasciáta!
Il più grande vantaggio che offrono le pietre squadrate è quello di non avere bisogno di essere murate a... plotoni affiancati, cioè in due file, con il riempimento del minuzzame all’interno; esse vengono murate in unica fila.
Per incatenarle, per cementarle, soccorre la calce, mescolata con terra in un primo tempo, e successivamente, quando fa la comparsa il cemento, impastata anche con questo. I muri non vengono più edificati a piano inclinato, ma a piombo. Infine si rende possibile, sempre grazie alla calce, la copertura dei tetti a cupola. 
I muri a pietra squadrata, tuttavia, non soppiantano quelli a casciáta, tant’è vero che questi si costruiscono ancora oggi; si affiancano e si alternano con essi. All’antica tecnica costruttiva si aggiunge una nuova.

 

La Storia di Pantelleria

Abbiamo descritto nelle pagine precedenti l’isola, abbiamo allestito la scena, è tempo d’immettervi gli attori, di farli recitare: dopo l’isola, gli isolani, la loro storia…
La storia di Pantelleria resterà sempre una spes hominis, destinata ineluttabilmente a concludersi con un aborto, un tentativo destinato inesorabilmente all’insuccesso…
Pantelleria ha navigato nella Storia quasi costantemente a rimorchio; ha avuto una sua storia fino a quando è stata una città stato, uno stato sovrano, e questo si verificò nell’epoca dei Sési e in quella di Cossíra. Purtroppo però la gente dei Sési non scrisse storia, perché la scrittura doveva essere ancora inventata e, quanto ai Fenici, essendo andata distrutta nell’anno 146 avanti Cristo, insieme a Cartagine, la sua ricca biblioteca di testi punici, assai poco sappiamo delle vicende della loro storia in... presa diretta.
Le famose tavole di Ugarit, che dicono tanto di tante cose e tanto poco di storia, risalgono ai secoli XV-XIV, dunque storia troppo vecchia e per giunta confusa con leggenda, religione, magia e altri intingoli, estranei in massima parte alla storia.
Dei più alti Fenici, di quelli che attinsero il più alto vertice di civiltà e di potenza, i Cartaginesi, delle cui vicende saremmo particolarmente bramosi di sapere, dato che sono stati nostri vicini di casa, sappiamo solo le balle che ci raccontano gli scrittori romani. 
Dunque la storia di Pantelleria, nella esatta accezione della parola, resta una inafferrabile Primula Rossa, che nessuno riuscirà a catturare. Piuttosto che di storia, è dunque più esatto parlare di cronache di Pantelleria; ma, poiché è ormai invalso l’uso di dire “storia di Pantelleria”, ci conformiamo anche noi a tale usanza, stiamo anche noi al gioco e diciamo anche noi “storia di Pantelleria”, la quale è poi una storia singolarmente iellata…
Mancando, per come abbiamo puntualizzato avanti, del materiale organico necessario, non disponendo che di cocci (una cosa scocciante, in verità!), non possiamo che procedere a tentoni, aggrappandoci, come i ciechi a quanto ci capita sottomano.
Abbiamo i resti di tre abitati, che sono i resti di altrettante epoche e civiltà... ci sorreggeremo su di essi, per tracciare un grossolano profilo della storia di Pantelleria. Così divideremo questa storia in tre grossi capitoli:

A) EPOCA PREISTORICA O EPOCA DEI SÉSI;
B) EPOCA STORICA ANTICA O EPOCA DI COSSÍRA;
C) EPOCA STORICA MODERNA O DELL’ABITATO DEL CASTELLO.

 

L'economia

In passato, tolta la brillante parentesi della belle époque cossirese, è stata sempre la facciata più opaca del panorama dell’isola. La popolazione pantesca ha vivacchiato alla meno peggio, risparmiando pure il fumo della candela.
Le notizie dei pochi scrittori antichi che hanno toccato l’argomento ci aprono spiragli su una scena di miseria.
Nicolò De Nicolai, la cui opera, almeno per la pagina su Pantelleria, verrà saccheggiata sfacciatamente da Domenico Lovisa, scrive intorno all’anno 1550: “Vi si fa gran copia di cotone e capperi, fichi, melloni, e buona uva... veggonsi assai case picciole molto vecchie fabbricate dai Mori nella terra a guisa di grotte, nel tempo che dell’isola eran padroni ... Non hanno alcuni cavalli, ma si bene buoi in gran copia con i quali il terreno lavorano, avenga che non renda grano veruno. Ma di Sicilia si proveggono, al quale eziandio sono soggetti. Produce però qualche altro legume ed erbe di cucina di poco conto.
Evvi un arbuscello rassomigliante al Nerte, dai Mori detto Vero e dai Siciliani Stinco, il quale produce un picciolo frutto tondo, che, acerbo, è rosso, poi, sendo maturo, si fa nero: e di quello gli Insulani che molto poveri sono ne fanno olio, del quale sì nelle lucerne, come nel mangiare si servono; anche le donne di questo olio dopo l’essersi lavate la testa, li capegli se ne ongono per farli crescere e più belli: e tanto gli uomini quanto le donne sono molto destri al nuoto, sì come ne vedemmo la sperienza di una contadina la quale portava una sporta piena di frutti, che nel mare attuffandosi e notando fino nella nostra galera ne l’arrecò per vendere”.
Dunque una popolazione di poveri diavoli che abitano in tane scavate nella terra a guisa di grotte; che utilizzano l’olio dei frutti di una pianta boschiva, sia come condimento del mangiare sia come lozione per i capelli delle donne, che si sobbarcano a una nuotata nella speranza di vendere della frutta a naviganti in sosta.
Un quadro di miseria, che l’autore sintetizza nella frase “gli Insulani che molto poveri sono”. Un quadro più ampio e dettagliato, un grande affresco di miseria ci dipinge il Broggia due secoli dopo, di cui abbiamo già riferito.
Così per tanti secoli l’isola visse in miseria; poi, nella seconda metà dello scorso secolo, l’economia dell’isola imbrocca la rotta giusta... la rotta dello zibibbo. Da questo momento la storia dell’economia dell’isola, che è storia della sua agricoltura, si fa storia del suo più importante prodotto, l’uva zibibbo (in dialetto: “zzibíbu”)…

 

Folklore usanze e costumanze

Al giorno d’oggi è il capitolo più scarno del libro di Pantelleria; in passato fu meno striminzito, ma non è stato mai un capitolo nutrito. È strano come né il mare, né il cielo, né la terra, né la notte, né il giorno, né Cristo, né il diavolo abbiano minimamente scosso la fantasia di questa gente, presso la quale non si reperiscono né riti, né canti, né danze, né leggende, né fantasie. Anche il carnevale, cui uno studioso americano ha dedicato una monografia, non presenta niente di particolare, nessuna particolare attrattiva, nessuna peculiarità né originalità; ai panteschi piace, a carnevale, ballare e ballano, senza cortei di maschere, di carri, di allegorie e fantasie; si balla in locali chiusi, ecco tutto.
Naturalmente questa pagina non è del tutto vuota; c’è qualche cosa, ma poca cosa, che appartiene più al passato che al presente. È bene avvertire che quando parliamo di “passato”, ci riferiamo al passato prossimo, cioè all’arco di tempo che va dal secolo scorso alla guerra 1940-1943; del passato remoto nulla sappiamo dire.
Una fortuna è stata la venuta in Pantelleria in data 21 marzo 1967 di un inviato dell’Accademia di Santa Cecilia e di un inviato della RAI-TV. Obbiettivo della spedizione: raccogliere canti religiosi, nenie, racconti a chiave, rebus, scioglilingua, formule di esorcismi e pratiche connesse; invocazioni propiziatorie per la pioggia, contro il malocchio, contro l’insolazione; giuochi infantili e simili. Miracolosamente questa spedizione è riuscita a raccogliere, dalle bocche sdentate di tanti vecchi, i relitti di questo tesoro che, ancora che si fosse tardato qualche anno, sarebbe andato irrimediabilmente perduto. Tutto il materiale raccolto, consistente in una cinquantina di brani (taxa, direbbero i naturalisti) è stato messo in salvo, depositato all’Archivio del Centro Nazionale di Musica Popolare, istituito dall’Accademia di Santa Cecilia e dalla RAI-TV.
Una esclusività di Pantelleria fu un tempo la famosa “Corsa degli asini”, che ancora si pratica, inclusa nei festeggiamenti in onore di S. Pietro, ma oggi è una gara di nessun rilievo, che passa quasi inosservata. Un tempo la corsa degli asini, che non si praticava a data fissa, ma quando capitava, era un avvenimento importante che faceva scasare tutti i panteschi dalle loro dimore per assistervi. Era una corsa di animali, ma anche una lotteria, giacché si puntavano somme anche cospicue. Gli asini concorrenti erano soltanto due. Le povere bestie, alla fine della corsa, erano massacrate di botte e insanguinate dalle ferite loro inferte dai fantini, con i punteruoli infilati nei nerbi di bue, che servivano per spronarle.
Verso il 1930 la corsa fu ammodernata, si scelse per pista la riva del Lago, e le bestie che gareggiavano furono aumentate di numero. Ancora oggi, per ferragosto, si svolgono queste corse, ma non si puntano più somme; non si tifa più come un tempo, non si esaltano più fantini di grido come in passato.

Il dialetto di Pantelleria

In atto è costituito essenzialmente dal siciliano, permeato di parole arabe. Un tempo era nettamente arabo. Tommaso Fazello annota nell’anno 1558: “...gli abitatori ... l’abito e la favella l’hanno comune co’ Saracini”
Col tempo, il dialetto siciliano fece il gioco del riccio, si introdusse e scacciò l’arabo, di cui però rimasero superstiti alcune parole ed espressioni. La resistenza fu più tenace nella toponomastica, da cui non sarà mai scacciato del tutto.
Una caratteristica pregevole del parlare pantesco è quella di non avere cantilena.
Considerando che il dialetto può offrire al forestiero interesse e curiosità, al pari di un pezzo archeologico o di uno scorcio panoramico, scioriniamo qui di seguito un “campionario del dialetto pantesco”, che comprende una ristretta selezione di vocaboli.
La scelta è quanto mai esigua; chi intende fare una completa conoscenza col dialetto pantesco potrà consultare per ora l’opera del prof. Giovanni Tropea “Per una monografia sul dialetto dell’isola di Pantelleria” e un’altra opera precedente, citate entrambe nella bibliografia. Abbiamo detto “per ora”, perché le due opere sono il preludio di un’opera ben più vasta, un’opera, che non esitiamo a definire monumentale: un dizionario completo del dialetto pantesco, frutto di anni di ricerche di questo studioso, il quale ha tanto studiato l’argomento che conosce il nostro dialetto assai più a fondo che gli stessi panteschi. Esprimiamo la nostra riconoscenza al Centro di studi filologici e linguistici siciliani dell’Università di Catania, che ha inviato questo esperto nell’isola e ha salvato miracolosamente un tesoro che stava per andare irrimediabilmente perduto... l’archeologia lascia tracce indistruttibili, le pietre, ma il linguaggio, una volta scomparso, se nessuno studioso ha avuto cura di annotarlo, svanisce con gli uomini che l’hanno parlato.
Il nostro campionario, al pari di una scatola di lucido, ha bisogno di avvertenze per l’uso; ne faremo alcune, limitate alle più importanti, altrimenti non la finiamo più, anzi, non iniziamo mai.
Abbiamo scritto le parole così per come si pronunziano, ma purtroppo non sempre questa ricetta riesce allo scopo, non sempre la grafia riesce a rendere il suono esatto. Chi non parla il dialetto siciliano oppure la lingua inglese non riuscirà mai a pronun-ziare esattamente, se non dopo un adeguato allenamento, il nesso consonantico ddr, che è incluso anche nella voce “Pantiddraría”. La pronunzia di questo nesso è un retaggio del presidio inglese in Sicilia 1811-1814.
La c aspirata toscana, tanto per intenderci, quella dell’ormai internazionale espressione “mondo cane!”, che nel dialetto pantesco è un retaggio della lingua araba, l’abbiamo resa con il nesso kh; in ossequio all’arabo, si dovrebbe rendere l’aspirazione con la sola consonante h, così si dovrebbe scrivere “Hámma”, anziché, come scriviamo noi, “Khámma”; ma a noi la soluzione adottata pare la più sicura. Ponete mente alla parola francese hotel, originariamente si pronunziava aspirata, ma intanto nessuno più si sogna di pronunziarla tale; si pronunzia “otel”, come se l’h non esistesse. Col rafforzamento della consonante k, la h non può essere tralasciata e costringe alla aspirazione.
La ç con la cediglia si pronunzia sibilante come ce, ci, del parlare toscano, “peçe”, “diçe”...
Una singolarità: molte parole sono composte di una stessa parola ripetuta; con terminologia mia personale, io le chiamo parole refrain: sochisóchi; libiléba; bbakhibbákhi... Ad ogni parola abbiamo apposto l’accento tonico, onde evitare lo strazio di sentire pronunziare dai forestieri “cuddía”, anziché cúddia…

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